Da qualche decennio assistiamo ad un lento ma inesorabile declino della percentuale di crescita e di sviluppo del nostro Paese. A partire dal 2008 la caduta si è ulteriormente accentuata, fino a toccare fasi depressive o a crescita zero.
In parallelo agli insoddisfacenti livelli di crescita, si è notato negli anni un crollo della competitività, nel sistema Paese come nelle imprese. L’Italia è ben al di sotto della media europea per quanto riguarda gli investimenti, sia in equity che per attività di formazione. Le imprese, soprattutto le piccole, investono poco e non curano adeguatamente il capitale umano, compromettendo così la loro produttività e, di conseguenza, la loro competitività internazionale. Dati alla mano, è agevole tracciare quasi una regressione lineare analizzando competitività, capitale fisico e investimenti in formazione.
Lo Stato ha un ruolo cruciale nel processo di crescita della competitività, perché la produttività si basa ormai su modelli dinamici in cui dotazione di capitale fisico, incentivi, fiscalità e qualità della forza lavoro possono essere modificati nel tempo grazie agli assunti della ‘politica industriale’. Data l’importanza dei temi legati alla competitività del sistema Paese, risulta perlomeno singolare che la questione non sia costantemente al centro delle agende politiche, e venga spesso scavalcata da argomenti di minore priorità o importanza (ma forse di maggiore appeal elettorale).
Secondo il Global Competitiveness Report, l’annuale classifica stilata dal Forum Economico Mondiale, la competitività di uno Stato è data dall’insieme delle istituzioni, delle politiche e dei fattori che ne determinano il livello di produttività. In particolare, nella determinazione dei livelli di competitività degli Stati, vengono misurate nove variabili: le istituzioni, le infrastrutture, i dati macroeconomici, la salute della popolazione e la scolarità primaria, l’istruzione media e superiore, l’efficienza del mercato, il livello tecnologico, la sofisticazione del business e l’innovazione.
Il Governo ha quindi chiare ed evidenti responsabilità sul tema della competitività. Ma torniamo a parlare di imprese e di quanto esse fanno per nobilitare le conoscenze, le competenze, le potenzialità delle proprie risorse umane durante l’intero ciclo dell’HR management: attrarre, scegliere, assumere, programmare la formazione, formare con continuità e gestire le risorse umane.
Fornisco alcuni dati macro estratti da Eurostat su temi inerenti la formazione, che possano testimoniare la distanza italiana sui partner di UE27. Segmentando le 3 classi dimensionali di riferimento per gli addetti (10-49, 50-249, >=250), che sono usuali in questo Paese, si evince chiaramente che le imprese della classe dimensionale maggiore (>=250 addetti) sono più vicine ai migliori standard europei, mentre il divario si acuisce progressivamente e più che linearmente man mano che si scende di classe dimensionale. Tanto più l’impresa è di piccole dimensioni tanto più si allontana dai migliori standard. E tanto meno programma e realizza piani formativi:
Dato 1) Percentuale di imprese con 10 o più addetti che hanno realizzato attività formativa per i propri addetti negli ultimi anni. Un esempio: 66% in Francia, 30% in Italia. Molto al di sotto della media UE27. E’ un indicatore utile a verificare quanto la formazione ‘stia a cuore’ al management e alla proprietà, e quanto sia essa pensata, programmata, strutturata.
Dato 2) Percentuale di imprese che hanno un programma di formazione e/o una voce di bilancio specifica per le risorse dedicate alla formazione: In Italia siamo a metà della media UE27
Dato 3) Qualità e dimensione degli investimenti in formazione. Al di là del numero delle imprese che investono in formazione, quant’è il costo medio della formazione per dipendente a parità di potere d’acquisto? Basti un solo dato: circa €1100 per dipendente in Belgio, circa €420 in Italia. E, ancora una volta, ben sotto la media UE27.
Potremmo andare avanti, ma bastano pochi dati aggregati per dimostrare che la formazione è lo strumento essenziale per migliorare la qualità del lavoro, per accrescere il valore delle competenze esistenti e per l’acquisizione di nuove skills. Formazione, produttività e competitività sono legate a filo doppio. Non investire in formazione equivale a decidere di rimanere quel che si è, derivando rapidamente verso l’obsolescenza e incrementando il gap con le migliori imprese del settore di appartenenza. Quindi formazione come elemento atto a ridurre il rischio di impresa.